Cassazione Penale, Sez. 4, 12 novembre 2024, n. 41394 – Infortunio mortale dell’autista durante le operazioni di carico sull’autocarro di lunghe assi di legno

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:

A.A. nato a N il Omissis RESPONSABILE CIVILE

avverso la sentenza del 24/10/2023 della CORTE APPELLO di NAPOLI

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

svolta la relazione dal Consigliere GABRIELLA CAPPELLO;

lette le conclusioni rassegnate dal Procuratore generale, in persona del sostituto SABRINA PASSAFIUME, la quale ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso;

lette le conclusioni rassegnate dall’avv. Irene Cossu per le parti civili, la quale ha chiesto la conferma con condanna del A.A. alle spese del presente, come da separata nota.

Fatto

  1. La Corte d’Appello di Napoli ha riformato la sentenza del Tribunale di quella città, con la quale A.A. era stato condannato per omicidio colposo ai danni di B.B., aggravato dalla violazione delle norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro (artt. 77, comma 4 lett. d), 64, comma 1, lett. a), 28, comma 2 lett. d) e 71 comma 2, lett. c) D.Lgs. n. 81/2008), dichiarando la prescrizione delle contravvenzioni di cui al D.Lgs. n. 81/2008, rideterminando la pena e confermando la condanna del predetto per il restante reato, contestatogli per avere, nella qualità di rappresentante legale della EDILSIVISA Srl e datore di lavoro della vittima, assunto regolarmente con la qualifica di autista, impegnato in un’operazione di carico e scarico di travi di legno su un autocarro, privo di adeguata e specifica capacità professionale e tecnica, cagionato la morte del citato B.B., omettendo di consegnargli il casco protettivo previsto nel DVR, disponendo che il lavoro avvenisse in zona non sufficientemente illuminata e omettendo di considerare il rischio derivante dall’impiego di un muletto a forche per movimentare travi lamellari in abete (in Napoli, il 20/2/2017).
  2. La Corte d’Appello, preliminarmente, ha affermato che il compendio probatorio aveva consentito di accertare che, il giorno del sinistro, la vittima e il collega C.C., entrambi con qualifica di autisti, erano stati impegnati, così come nei giorni precedenti, nelle operazioni di trasferimento del materiale pesante (tra cui alcune travi) presso la nuova sede della ditta, servendosi di un autocarro e un muletto. Tuttavia, le travi oggetto delle operazioni erano più lunghe del cassone dell’autocarro e, pertanto, il loro caricamento avveniva appoggiandone solo la parte anteriore al tetto della cabina del mezzo, apponendo delle pedane di legno a fare da “zeppa” per impedire lo scivolamento delle travi, legate da alcune cinghie e bloccate alle sponde laterali del mezzo. L’istruttoria aveva confermato che la lavorazione era quella seguita per prassi e che, solitamente, durante l’esecuzione, la vittima si posizionava a terra lateralmente al veicolo, talvolta salendo sulla cabina. Era pure emerso che, al momento dell’infortunio, l’uomo era a terra,” affermazione che, ad onta delle risposte incerte del collega C.C., poggiava su molteplici elementi fattuali (rilievi eseguiti nell’immediatezza, posizione del corpo del lavoratore e delle travi che lo avevano attinto, localizzazione delle lesioni e delle tracce ematiche rinvenute su alcune travi, frattura del polso sinistro). Era pure emerso che dette operazioni avvenivano con modalità pericolose (senza il casco protettivo, senza la qualifica e la formazione specifica) e che, nell’occorso non vi era stata adeguata illuminazione: il fatto era avvenuto verso le 18:00 e il luogo era stato trovato al buio con il gruppo elettrogeno spento ed era stato necessario illuminarlo con i fari di un veicolo. Ciò smentiva quanto affermato dal C.C. in ordine all’impiego di quel gruppo elettrogeno: da un lato, del tutto illogicamente il dichiarante avrebbe spento il gruppo elettrogeno dopo l’infortunio; dall’altro, le condizioni dei luoghi aveva trovato riscontro nelle dichiarazioni del teste D.D., cassiere di una pizzeria ubicata di fronte al deposito il quale, udendo un forte rumore, era intervenuto nell’immediatezza, confermando che l’unica luce proveniva dai fari del muletto.

A fronte delle censure veicolate con il gravame, la Corte territoriale ha osservato che la predisposizione del DVR non esonerava da responsabilità il datore di lavoro in relazione all’adozione di una prassi aziendale in stridente contrasto con esso e che il comportamento del lavoratore non poteva considerarsi abnorme, ma al più imprudente, tale dunque da non scriminare la condotta attribuita.

Quanto al trattamento sanzionatorio, poi, quel giudice ha ritenuto corretto l’operato bilanciamento, valutando come scellerate le modalità operative e grave la condotta ascritta, rigettando la doglianza con la quale si era censurata la condanna del responsabile civile, coincidente con la persona fisica dell’imputato, affermando che quest’ultimo era socio al 50% ed amministratore unico e che la responsabilità dell’ente trovava ragione nel principio dell’immedesimazione organica, rispondendo autonomamente per fatto altrui, cosicché lo stesso non avrebbe potuto stare in giudizio per il tramite dell’amministratore unico, siccome imputato.

  1. La difesa dell’imputato e del responsabile civile ha proposto ricorsi, con unico atto, formulando due motivi.

Con il primo, ha dedotto erronea applicazione della legge penale e vizio della motivazione, contestando la valutazione degli elementi fattuali, sia con riferimento alla posizione della vittima, che all’orario dei fatti; rilevando la mancata considerazione delle dichiarazioni del teste E.E., ispettore ASL, nonché di quelle del consulente tecnico della difesa; censurando la valutazione delle dichiarazioni del teste C.C., quanto alla sussistenza di un comportamento abnorme della vittima. In particolare, il teste E.E. aveva affermato che, per le mansioni del B.B., il casco non era presidio obbligatorio e il carrello (muletto a forche) era strumento idoneo se usato con le dovute accortezze e da parte di soggetto esperto nel carico delle travi. In conclusione, secondo la difesa, il posizionamento del B.B., il quale nell’azienda svolgeva solo mansioni di autista, era stato determinante, cosicché ove egli non si fosse trovato nei pressi del camion, l’evento non si sarebbe verificato. Altro aspetto equivoco evidenziato in ricorso attiene, poi, alla ritenuta prassi aziendale, accettata dal datore di lavoro, di adibire gli autisti alle operazioni di carico: l’autista, in quanto tale, partecipa solo al termine delle operazioni, siccome responsabile del carico, ma mai durante le stesse, come accaduto nella specie. Di qui, la difesa ha inferito l’eccentricità del comportamento tenuto nell’occorso dalla vittima e non la sua mera imprudenza, poiché il B.B. non avrebbe dovuto prender parte a quelle operazioni.

Con il secondo motivo, ha dedotto violazione o erronea applicazione delle legge penale, in relazione alla intervenuta condanna della EDILVISA Srl nella qualità di responsabile civile: nella specie, l’imputato e il responsabile civile corrisponderebbero, sia sotto il profilo soggettivo che giuridico, richiamando il principio dell’altruità del fatto che sorregge la responsabilità civile per fatto dell’imputato, in virtù del quale non può essere citato come responsabile civile chi abbia titolo diretto di responsabilità.

  1. Il Procuratore generale, in persona della sostituta Sabrina PASSAFIUME, ha depositato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
  2. La difesa delle parti civili F.F., in proprio e n.q. di esercente la responsabilità genitoriale sui minori G.G., H.H. e I.I., ha depositato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto la conferma della sentenza e la condanna di A.A. alle spese sostenute per il giudizio, come da nota allegata.

Diritto

  1. I ricorsi sono inammissibili per manifesta infondatezza di entrambi i motivi.

1.1. Quanto al primo, l’impalcatura difensiva poggia sull’assunto che, nella specie, il comportamento del lavoratore deceduto sia stato improntato ad eccentricità e abnormità rispetto alle mansioni svolte in quel contesto lavorativo e presuppone come dimostrato un elemento fattuale che, tuttavia, è stato considerato dai giudici del doppio grado in termini di assoluta difformità rispetto alla prospettazione difensiva. La questione introduce la necessità di operare una premessa generale, inerente ai limiti stessi del vizio deducibile, proprio perché, nella specie, si è di fronte a un’ipotesi di doppia conformità quanto al reato di omicidio colposo. E, sul punto, devono richiamarsi i principi che disciplinano la deducibilità del vizio di motivazione per travisamento probatorio anche per omissione, agitato con il ricorso, nel caso di doppia decisione conforme di merito. Tale tipologia di vizio motivazionale, infatti, può essere dedotta solo ove il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice (sez. 4 n. 4060 del 12/12/2013, dep. 2014, Rv. 258438; n. 5615 del 13/11/2013, dep. 2014, Rv. 258432) o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia (sez. 2 n. 47035 del 3/10/2013, Rv. 257499).

Decisività della prova che non può essere attribuita a quelle indicate dal ricorrente, atteso che le prove sono state esaminate dal primo giudice attraverso una lettura complessiva del compendio acquisito, laddove l’asserito travisamento si sostanzia in null’altro che nella inammissibile sollecitazione a rivalutare, in questa sede, il significato attribuito dai giudici di merito alle prove stesse attraverso un ragionamento scevro da contraddizioni o manifeste illogicità. Né può ritenersi che entrambi i giudici siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie, poiché in tal caso esso deve apparire in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (sez. 4, n. 35963 del 3/12/2020, Tassoni, Rv. 280155).

Pertanto, una volta ritenuto dimostrato dai giudici di merito, attraverso un ragionamento esplicativo non scalfito, per quanto sopra chiarito, dalle osservazioni difensive, che il B.B. era stato incaricato insieme ad altro collega con la stessa mansione di autista delle operazioni di spostamento di quelle travi da una sede all’altra della ditta e che quella seguita nell’occorso era una vera e propria prassi lavorativa, gli argomenti difensivi, con i quali si è evocata la abnormità e/o eccentricità del comportamento tenuto dalla vittima tradiscono la loro manifesta infondatezza alla stregua di quello che può considerarsi ormai orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità.
Infatti, è vero che – in materia di prevenzione antinfortunistica – si è passati da un modello “iperprotettivo”, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori a uno “collaborativo”, in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori, in tal senso valorizzando il testo normativo di riferimento (art. 20 D.Lgs. n. 81/2008), che impone, dunque, anche ai lavoratori di attenersi alle specifiche disposizioni cautelari e agire con diligenza, prudenza e perizia (sul punto, sez. 4 n. 8883 del 10/2/2016, Santini, Rv. 266073) e, dunque, dal principio “dell’ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore” al concetto di “area di rischio” (sez. 4, n. 21587 del 23.3.2007, Pelosi, Rv. 236721) che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva, tuttavia, è indubbia la perdurante validità del principio per il quale non può esservi alcun esonero di responsabilità all’interno dell’area di rischio, nella quale si colloca l’obbligo datoriale di assicurare condizioni di sicurezza appropriate anche in rapporto a possibili comportamenti trascurati del lavoratore (sez. 4 n. 21587 del 2007, Pelosi, cit.). All’interno dell’area di rischio considerata, quindi, deve ribadirsi che la condotta del lavoratore può ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo ove sia tale da attivarne uno eccentrico o esorbitante dalla sfera governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (sez. 4 n. 15124 del 13/12/2016, dep. 2017, Gerosa, Rv. 269603; n. 5007 del 28/11/2018, dep. 2019, Musso, Rv. 275017); oppure ove sia stata posta in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e, come tale, al di fuori di ogni prevedibilità da parte del datore di lavoro, oppure vi rientri, ma si sia tradotta in qualcosa che, radicalmente quanto ontologicamente, sia lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (sez. 4 n. 7188 del 10/1/2018, Bozzi, Rv. 272222).

Orbene, nella specie, la risposta approntata dalla Corte d’Appello alle doglianze formulate con il gravame quanto alla pretesa efficacia interruttiva dell’azione del lavoratore rispetto al nesso causale tra la condotta addebitata e l’evento è del tutto allineata con i principi testé richiamati: il comportamento del B.B. che la difesa ha definito imprevedibile è stato ritenuto solo imprudente e pienamente coerente con la prassi instaurata sul luogo di lavoro, per la quale le operazioni di carico sull’autocarro di lunghe assi di legno venivano effettuate attraverso accorgimenti di fortuna (quali il posizionamento di una pedana per frenare lo scivolamento naturale del carico), da soggetti le cui mansioni erano diverse e che erano privi di adeguata formazione, in assenza di presidi individuali adeguati, nell’occorso essendo stato anche accertato che il lavoro era stato effettuato in condizioni di scarsa, ove non mancante, illuminazione.

Del tutto inconferente è, dunque, l’osservazione difensiva che rimanda alla non necessità del casco per le mansioni del B.B., una volta accertato che egli è morto proprio mentre era intento ad operazioni di carico e non alla guida dell’autocarro o in atto di controllarne il carico; cosi come inconducente è la circostanza che l’impiego del muletto fosse regolare e che esso fosse idoneo allo scopo, una volta accertato, e precisato in ricorso (mediante un rinvio alle dichiarazioni E.E.), che tale mezzo presuppone comunque l’esperienza del soggetto che lo utilizza. Infine, è inconferente, rispetto all’addebito mosso, la circostanza che la procedura lavorativa corretta fosse prevista nel DVR, una volta ritenuta provata una prassi che se ne discostava nei termini ricostruiti in sentenza (sul punto, sez. 4, n. 26294 del 14/3/2018, Fassero Gamba, Rv. 272960-01, in cui si è precisato – in ipotesi di prassi contra legem instaurata sotto la sorveglianza di un preposto e foriera di pericoli per gli addetti – che la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche; n. 10123 del 15/1/2020, Chironna, Rv. 278608-01).

1.2. Quanto al secondo motivo, invece, va rilevato in premessa che il responsabile civile risponde non direttamente ma per fatto altrui, il principio di “altruità” ricavandosi direttamente dal combinato disposto di cui agli artt. 185, comma 2, cod. pen. e 83, comma 1, cod. proc. pen. (sul punto, sez. 4, n. 10701 del 1/2/2012, Baraiolo, Rv. 252674-01, in cui si è, per l’appunto, affermato che la responsabilità diretta non si attaglia alla figura del responsabile civile che è il soggetto giuridico tenuto al risarcimento dei danni in quanto obbligato a rispondere per il fatto altrui, con conseguente illegittimità della decisione che affermi la responsabilità diretta del responsabile civile e non già per fatto altrui, principio affermato in fattispecie in cui la S.C. ha censurato l’affermazione della responsabilità di un ente locale a titolo di culpa in eligendo e in vigilando, e quindi per fatto proprio, pur rivestendo nel processo la veste di responsabile civile; sez. 6, n. 41520 del 27/9/2012, Zaccagnini, Rv. 253810-01, in cui si è ribadito che non può assumere la veste di responsabile civile ai sensi dell’art. 185 cod. pen. il soggetto che, versando in colpa, abbia un titolo diretto di responsabilità per i danni lamentati dalla parte civile).

Corollario di tali principi, pertanto, è che, in tanto può sussistere la legittimazione passiva del responsabile civile, in quanto sia presente nel processo penale un imputato del cui operato egli debba rispondere per legge, a norma dell’art. 185 cod. pen. (sez. 5, n. 28157 del 3/2/2015, Lande, Rv. 264913-01; in fattispecie in cui la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito aveva escluso la natura di responsabile civile di una banca, non essendovi nell’ambito del relativo procedimento penale un imputato del quale, in quanto parte di un rapporto di immedesimazione organica, il predetto istituto bancario fosse chiamato a rispondere, a norma delle leggi civili; sez. 4, n. 42127 del 3/11/2021, Ingino, Rv. 282277-01, in cui, in applicazione del principio, la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito aveva individuato il responsabile civile nella società di cui era dipendente la persona offesa ed amministratore di fatto l’imputato e, conseguentemente, nelle tre società successivamente sorte all’esito della scissione di essa, operata in epoca successiva all’infortunio).

Rapporto di immedesimazione organica che, nella specie, è invece esistente, come correttamente ritenuto dai giudici di merito dal momento che il A.A., oltre ad essere socio al 50% dell’ente, era anche amministratore unico dell’ente (sul punto, Sez. U civili n. 1545 del 20/172017). Del tutto erronea è la conclusione che la difesa ha preteso di trarre da tale premessa affermando che l’ente coincide con la persona fisica che lo rappresenta. Nella specie, l’ente, una società di capitali, ha personalità giuridica ed è stata ritenuta, del tutto correttamente, solo indirettamente responsabile per i danni derivati dalla condotta di una persona fisica (l’imputato) che ha agito in virtù del rapporto di immedesimazione organica sopra richiamato.

  1. Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila ciascuno in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi ragioni di esonero in ordine alla causa di inammissibilità (Corte cost. n. 186/2000) e quella, in solido, alla rifusione delle spese in favore delle costituite parti civili che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila ciascuno in favore della Cassa delle ammende nonché in solido alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità alle parti civili F.F., in proprio e nella qualità di esercente la responsabilità genitoriale su G.G., H.H. e I.I., liquidate in complessivi 4.423,20 euro, oltre accessori come per legge se dovuti.

Così deciso l’8 ottobre 2024.

Depositata in Cancelleria il 12 novembre 2024.

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