Cassazione Penale, Sez. 4, 28 novembre 2024, n. 43372 – Caduta del muro durante i lavori di ristrutturazione abusivi. Responsabilità del datore di lavoro di fatto del lavoratore deceduto

Fatto

  1. La Corte d’Appello di Messina ha confermato la sentenza del Tribunale di Barcellona P.G., con la quale l’odierno ricorrente, A.A., era stato condannato alla pena di anni due e mesi nove di reclusione per omicidio colposo, aggravato dalla violazione delle norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, ai danni di B.B., impegnato nella esecuzione di lavorazioni abusive aventi a oggetto l’immobile del A.A. (in L, il 28/9/2013).

In particolare, si è contestato all’imputato di avere eseguito detti lavori insieme alla vittima, non regolarmente assunta, per realizzare dei fori alla base del muro che separava l’immobile da altro attiguo, senza fornire al B.B. adeguati presidi, né informazioni sui rischi durante le lavorazioni di scavo del muro, utilizzando cavalletti non conformi, senza allestire opere provvisionali o precauzioni per eliminare il pericolo di caduta dall’alto e senza una previa valutazione della stabilità del muro che crollava, facendo cadere il B.B. e rovinando addosso al medesimo.

  1. La dinamica è stata ricostruita dai giudici del merito alla stregua delle prove raccolte nei termini che di seguito si riassumono. I lavori avevano interessato un immobile rustico del A.A.; la vittima stava lavorando su una struttura precaria; soccorso dai vicini, il B.B. era stato portato dall’ambulanza, intervenuta circa 40 minuti dopo la caduta, al pronto soccorso dell’ospedale di L, ove era deceduto dopo circa quattro ore dall’ingresso; anche il A.A. era rimasto ferito, ma era stato poi trasferito in altro nosocomio a M, a causa dei postumi; i parenti della vittima avevano dichiarato che il proprio congiunto era stato impegnato, nelle ultime due settimane, nella esecuzione di lavori di ristrutturazione di un vecchio immobile del A.A., loro vicino e locatore, il quale lo pagava Euro 70,00 al giorno, insieme ad altri operai. Descritta la dinamica della caduta, la Corte del gravame ha richiamato la sentenza appellata, dando conto della ritenuta posizione dell’imputato, quale committente dell’opera e, al tempo stesso, datore di lavoro di fatto della vittima. L’imputato, infatti, si era occupato in prima persona dell’esecuzione di quei lavori, della retribuzione dei dipendenti e dell’ordine e pagamento dei materiali, essendo stato sempre presente in cantiere intento a eseguire lavori e sovrintendere agli stessi, sebbene i titoli abilitativi fossero stati rilasciati con l’indicazione di una ditta esecutrice e di un diverso direttore dei lavori, terzi rispetto al A.A.

In tale duplice veste, al A.A. sono stati riconosciuti poteri propri di gestione del rischio inerente al cantiere, ai quali sono state ricondotte le violazioni delle regole cautelari indicate in imputazione. Quanto alla prova degli addebiti colposi, i giudici territoriali hanno richiamato gli esiti della svolta istruttoria, arricchitasi anche del sapere tecnico veicolato nel processo attraverso periti e consulenti, nonché dell’apporto testimoniale, tra gli altri, dell’ispettore ASP di Messina.

La Corte peloritana ha poi richiamato il contenuto delle doglianze introdotte con il gravame, non prima di averne stigmatizzato la sovrabbondanza e ripetitività e l’esposizione non ordinata e neppure precisa, tuttavia individuando il contenuto delle stesse. Quanto alle numerose eccezioni di nullità, la Corte le ha previamente esaminate, ritenendo intanto infondata quella inerente a una presunta violazione dell’art. 521, cod. proc. pen., rilevando che, nel presente procedimento, il A.A. era stato giudicato nella qualità di committente dell’opera e datore di lavoro di fatto della vittima, qualità ritenuta del tutto coerente con quella di proprietario e committente di cui al procedimento avente a oggetto reati edilizi, nei quali figuravano anche le qualifiche formali rivestite da terzi, rilevando che nessuna istruttoria si era svolta in quel procedimento intesa ad accertare la reale posizione dell’imputato. Pertanto, nella specie, non vi sarebbe stata alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, né lesione dei diritti della difesa, con conseguente irrilevanza dell’acquisizione di quella sentenza e della mancata escussione dello C.C., indicato nella procedura edilizia quale esecutore delle opere.

Non ha ravvisato alcuna nullità della consulenza tecnica, sia quanto alle censure inerenti alla tutela del contraddittorio, avendo il PM agito ai sensi dell’art. 360, cod. proc. pen. con obbligo di dare avvisi alle parti, ma senza la necessità della loro presenza; che avuto riguardo alle risposte ai quesiti, atteso che il tema della responsabilità dei sanitari era stato sviluppato nel processo. Allo stesso modo, è stato ritenuto irrilevante l’esito del processo instaurato a carico di uno dei soccorritori, il tema della sua attendibilità non essendo condizionato dall’esito del procedimento inerente a reati di falso aventi un diverso oggetto. Ha pure ritenuto inconsistente l’eccezione inerente all’asserita inutilizzabilità delle dichiarazioni dell’ing. D.D., non essendo stata richiesta l’audizione del teste di riferimento, l’inutilizzabilità derivando solo dalla mancata audizione di tale teste ove richiesta. Inoltre, quanto alle dichiarazioni delle parti civili, era emerso dal verbale dell’udienza del 22/11/2017 che le parti avevano prestato il consenso all’acquisizione dei relativi verbali, pur essendo state ammesse a porre domande a chiarimento e nonostante una di esse fosse stata escussa alla medesima udienza, non avendo l’appellante neppure indicato, come suo onere preciso, i temi rimasti inesplorati.

Infondata è stata ritenuta anche l’eccezione di nullità della perizia E.E.. In particolare, la Corte ha rilevato che tra gli spostamenti consentiti nel periodo pandemico vi erano quelli per ragioni di giustizia anche nei territori rientranti nelle cc.dd. zone rosse, ma la difesa non aveva consentito allo svolgimento delle attività su piattaforma Teams. Quanto all’escussione dello C.C., inoltre, era rimasta smentita per tabulas l’affermazione difensiva secondo la quale costui avrebbe dovuto essere sentito quale testimone, essendo intervenuta l’archiviazione del procedimento connesso: era stata la stessa difesa, infatti, a chiederne l’esame ai sensi dell’art. 210 cod. proc. pen., egli risultando all’epoca ancora sottoposto a quel procedimento penale.

Quanto ai motivi riguardanti la responsabilità, i giudici territoriali hanno intanto confermato la posizione del A.A., quale committente e datore di lavoro di fatto della vittima, richiamando le dichiarazioni testimoniali confermative di tale assunto, osservando come le irregolarità riscontrate nel cantiere fossero particolarmente gravi e macroscopiche e come il A.A. fosse stato quotidianamente presente, rilevando, anche sulla scorta delle considerazioni del consulente del PM, che le qualifiche di esecutore e direttore dei lavori in capo a terzi erano state meramente formali e finalizzate all’aspetto amministrativo delle opere e che la ditta formalmente incaricata non aveva fatto alcuna formale comunicazione di inizio lavori, lo stesso C.C. essendo arrivato in cantiere il giorno del sinistro solo dopo il suo verificarsi. Peraltro, a fronte delle puntuali ricostruzioni del perito D.D., la difesa non aveva contestato le riscontrate condizioni di lavoro, essendosi limitata a insistere sulla non riconducibilità all’imputato di una posizione di garanzia. Nessun profilo di abnormità, inoltre, era ravvisabile nella condotta della vittima, atteso che la determinazione di porsi sopra il cavalletto per eseguire lo scavo della parete instabile era esattamente quanto gli era stato chiesto dal A.A.

Infine, la Corte d’Appello ha affrontato il tema dell’interruzione del nesso di causa che la difesa ha ricollegato all’intervento del personale sanitario successivamente alla caduta. Richiamate le conclusioni del consulente del PM TRIO e quelle conformi del perito E.E., la Corte territoriale ha ritenuto dimostrato che le lesioni erano state conseguenza della caduta e del crollo del muro sulla vittima e che l’esito infausto era stato conseguenza esclusivamente di esse: il perito, infatti, rispondendo alle obiezioni difensive, aveva descritto la natura di tali lesioni, dando conto della presenza di una serie di traumi e lacerazioni degli organi che avevano causato forti emorragie, essendo stato addirittura necessario asportare mi. 600 di sangue dal torace. Ha, poi, affrontato le censure difensive, rilevando che le circostanze ritenute rilevanti dalla difesa (manovre scorrette dei soccorritori, posizionamenti errati sulla barella) erano frutto di mere speculazioni astratte, non avendo ricevuto conferma nei fatti accertati: i soccorsi erano arrivati in tempi ragionevoli; il B.B. era stato posizionato su una barella ordinaria; non era potuto cadere mentre era, senza controllo, posizionato all’interno dell’ambulanza, per la semplice e logica considerazione che l’uomo fu trovato sulla barella all’arrivo al pronto soccorso; era da escludere che fosse stato posizionato su una sedia a rotelle, essendogli stato assegnato immediatamente il codice rosso e non essendo stato più rivisto dai suoi stessi familiari, solo due soggetti, peraltro congiunti del A.A., avendo affermato di aver notato la vittima sulla sedia, pur non avendo costoro avvisato i familiari del B.B. che erano presenti in quel luogo.

In ogni caso e risolutivamente, la Corte ha ritenuto le doglianze errate in punto di diritto, alla stregua del principio della irrilevanza delle cause sopravvenute che non introducono un diverso percorso eziologico, a fronte di lesioni compatibili con la caduta, posto che l’emorragia interna era stata una condizione ingravescente e progressiva. Né il decesso avrebbe potuto essere evitato con manovre che erano impraticabili sulla vittima, stanti le sue condizioni che non rendevano neppure possibile l’elitrasporto.

Infine, quanto al trattamento sanzionatorio, la conferma di quello individuato dal primo giudice è dipesa dalla constatazione dell’assenza di elementi positivi valutabili, in presenza di un precedente per violenza privata e danneggiamento, avendo la Corte stigmatizzato anche il cattivo comportamento processuale, per avere il A.A. introdotto nel processo dati risultati smentiti e ipotizzato colpe altrui, pur a fronte di incontestabili dati processuali, quanto al punto concernente le conclusioni delle parti civili rilevando che le comparse depositate erano tre, cioè una per ognuna di esse.

  1. La difesa del A.A. ha proposto ricorso, formulando quattro motivi.

Con il primo, ha dedotto i vizi di cui all’art. 606, lett. b), c), d) ed e), cod. proc. pen., con riferimento alla ritenuta irrilevanza causale delle manovre dei soccorritori: le argomentazioni del perito E.E. erano state confutate dal consulente della difesa F.F., essendo così emerso un contrasto di opinioni che imponeva un confronto tra tali tecnici, esame che la Corte d’Appello, davanti alla quale era stata rinnovata la richiesta, avrebbe immotivatamente negato, omettendo di valutare le conclusioni del F.F. e del consulente a difesa G.G., rispetto alle quali si sarebbe limitata ad affermare che le stesse muovevano da assunti non certi, pur essendo state confermate da testimoni (il riferimento è alle dichiarazioni H.H. e I.I., i quali avevano riferito in merito alle manovre insensate dei soccorritori), altresì errando nell’affermare che il G.G. avesse avallato le conclusioni del F.F., atteso che l’esame del primo era avvenuto prima di quello del secondo.

Con il secondo motivo, ha dedotto analoghi vizi quanto alla duplice qualifica del A.A. quale committente e datore di lavoro di fatto: dalla documentazione era emerso che la seconda qualifica spettava allo C.C. e la Corte non si sarebbe neppure confrontata con gli specifici addebiti contestati in imputazione. Sotto altro profilo, ha rilevato che la motivazione censurata sarebbe circoscritta a temi che eluderebbero le prove a discarico e la sussistenza del nesso di causa tra il sinistro e la morte del B.B. Inoltre, ha rilevato il contrasto tra il ruolo attribuito al A.A. in questo processo e quello risultante nel processo collegato per reati edilizi, nel quale egli era stato considerato proprietario e committente dell’opera, evidenziando che ciò condizionerebbe anche il processo per l’omicidio colposo del B.B. Da ciò, secondo il deducente, deriverebbe la mancanza di prova certa della qualifica di datore di lavoro di fatto in capo al A.A., pur restando certo che costui, insieme alla vittima, si era introdotto illegittimamente nel cantiere che lo C.C. avrebbe dovuto recintare, aggiungendo che quest’ultimo era stato presente sul luogo del sinistro adoperandosi con i soccorritori. Quanto alla posizione di costui, la Corte territoriale, secondo il deducente, si sarebbe limitata ad affermare che la posizione del A.A. era stata ricavata da prove dichiarative che neppure ha specificamente indicato, con conseguente vizio motivazionale della sentenza, osservando che, una volta definito il procedimento per i reati edilizi, le qualifiche dei soggetti contro i quali si procedeva in quella diversa sede erano rimaste cristallizzate.

Con il terzo motivo, ha dedotto i vizi di cui all’art. 606, lett. b), c) e d) in relazione alla mancata ammissione del confronto tra il perito E.E. e il consulente F.F. ed eventualmente anche tra il consulente del PM TRIO e il consulente della difesa G.G., onde rimuovere i dubbi che la Corte territoriale ha ritenuto di poter risolvere con la sola perizia E.E., professionista già accusato in altra sede di falsa perizia, avendo quell’ausiliario trattato superficialmente il tema della tardività dei soccorsi e dell’imperizia dei soccorritori, altresì sottovalutando che la consulenza medico legale si era svolta senza contraddittorio, essendo rimasto provato che diverse erano state le attenzioni rivolte allo stesso A.A., anch’egli rimasto ferito nell’occorso, ed avendo il perito elaborato la perizia avvalendosi della consulenza TRIO che però lo stesso Tribunale aveva evidentemente ritenuto non appagante. Quanto agli errori dei soccorritori, poi, la difesa ha rilevato che la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto dei rilievi difensivi, limitandosi ad un’asettica trascrizione di esternazioni del perito E.E., senza ammettere il confronto di questi con il consulente F.F..

Con il quarto motivo, ha dedotto analoghi vizi quanto al diniego delle generiche, poiché la Corte avrebbe, in maniera contraddittoria, riconosciuto il diritto dell’imputato a difendersi, salvo poi stigmatizzarne le esternazioni, tra le quali le accuse ai soccorritori.

  1. Il Procuratore generale, in persona del sostituto Marilia di Nardo, ha rassegnato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.
  2. La difesa dell’imputato ha rassegnato motivi nuovi, con i quali ha sviluppato ulteriormente le argomentazioni di cui al ricorso, ritenendo necessario un nuovo giudizio di merito.
  3. La difesa delle parti civili J.J., K.K. e L.L. ha rassegnato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto la conferma della sentenza e la condanna del ricorrente alle spese come da nota in calce.

Diritto

  1. Il ricorso va rigettato.
  2. Con i motivi di ricorso, la difesa ha sostanzialmente lamentato la mancata assunzione di una prova decisiva, ritenendo tale il confronto tra i vari esperti il cui sapere è stato veicolato nel processo, anche grazie al deposito di elaborati, soprattutto quanto al tema della interruzione del nesso causale che la difesa ha prospettato tra le lesioni riportate nell’infortunio e la morte del B.B., altresì censurando la conforme valutazione dei giudici del merito sulla ritenuta posizione del A.A. quale gestore del rischio specifico, oggetto delle violazioni addebitate a titolo di colpa.
  3. Orbene, in premessa va operata una precisazione.

Il tenore di alcuni motivi denuncia la mancanza di un effettivo confronto con quanto affermato dai giudici territoriali in maniera conforme, intanto con riferimento all’esistenza di tale posizione. In termini generali, costituisce approdo interpretativo consolidato che, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la previsione dell’art. 299 D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, elevando a garante colui che di fatto assume ed esercita i poteri del datore di lavoro, amplia il novero dei soggetti investiti della posizione di garanzia, senza tuttavia escludere, in assenza di delega dei poteri relativi agli obblighi prevenzionistici in favore di un soggetto specifico, la responsabilità del datore di lavoro, che di tali poteri è investito ex lege (Sez. 4, n. 2157 del 23/11/2021, dep. 2022, Baccalini, Rv. 282568 – 01; n. 49732 del 11/11/2014, Canignani, Rv. 261181 – 01). Ciò significa certamente che la qualifica meramente formale di datore di lavoro non vale da sola a esonerare da responsabilità il soggetto che ricopra quella posizione, ma significa anche, per quanto qui di rilievo, che la posizione di datore di lavoro può derivare da una autoinvestitura di fatto, tutte le volte che sia dimostrato l’esercizio in concreto di poteri inerenti alle figure specifiche dei garanti della sicurezza sui luoghi di lavoro, pur senza formale investitura (Sez. 4, n. 30167 del 6/4/2023, Di Rosa, Rv. 284828 – 01).

Ora, muovendo da tale premessa, deve rilevarsi la manifesta infondatezza del secondo motivo di ricorso.

Gli argomenti sui quali poggia la censura difensiva, da un lato, riguardano la valutazione del compendio probatorio, anche di natura testimoniale, dal quale i giudici del merito hanno tratto la certezza del ruolo effettivamente svolto dal proprietario e committente dell’opera, quello cioè del soggetto che ha organizzato e diretto il lavoro e sovrainteso a tutte le fasi esecutive di esso, peraltro partecipandovi anche direttamente quale esecutore materiale. Voler affermare che ciò non sia vero in questa sede significa sollecitare alla Corte di legittimità, dopo due gradi di merito, una lettura diversa di quel compendio, senza indicazione di violazioni di legge o vizi della motivazione rilevabili in questa sede (Sez. 3 n. 13926 del 1/12/2011, dep. 2012, Valerio, Rv. 252615 – 01) e la rivisitazione del giudizio di merito sostenuto da una congrua, logica e non contraddittoria motivazione (tra le altre, Sez. 3 n. 44418 del 16/7/2013, Argentieri, Rv. 257595 – 01; Sez. 2, n. 37295 del 12/6/2019, Rv. 277218 – 01). Dall’altro prospettano una violazione di legge, smentita dalla stessa previsione normativa richiamata (art. 299 cit.), oltre che dai principi di diritto sopra esposti.

Da quanto precede, discende dunque la correttezza del giudizio di irrilevanza, in questo giudizio, di quello conclusosi con pronuncia non in merito, avente a oggetto i reati edilizi, non essendovi alcun effetto preclusivo in ordine all’accertamento, ad esito di approfondita istruzione, della posizione di datore di lavoro di fatto ricoperta dal A.A., anche ove sia confermata la qualifica solo formalmente rivestita dallo C.C..

  1. Il terzo motivo è infondato.

Nel processo di merito è stato accordato ampio sviluppo al tema del rilievo causale dei soccorsi in ordine all’infausto epilogo. Orbene, sul punto, pare corretto capovolgere il ragionamento della Corte territoriale, senza che da ciò derivi alcuna conseguenza sulla tenuta logico-giuridica di esso. Si è da tempo fissato il principio per il quale, ai fini dell’apprezzamento dell’eventuale interruzione del nesso causale tra la condotta e l’evento (articolo 41, comma 2, cod. pen.), il concetto di causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento non si riferisce solo all’ipotesi di un processo causale del tutto autonomo, giacché, allora, la disposizione sarebbe pressoché inutile, in quanto all’esclusione del rapporto causale si perverrebbe comunque sulla base del principio condizionalistico o dell’equivalenza delle cause di cui all’articolo 41, comma 1, cod. pen. La norma, invece, si applica anche nel caso di un processo non completamente avulso dall’antecedente, ma caratterizzato da un percorso causale completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale, ossia di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta (Sez. 4, n. 1214 del 26/10/2005, dep. 2006, Boscherini, Rv. 233173 – 01, in cui la Corte ha escluso l’applicabilità dell’art. 41, comma secondo, cod. pen., in relazione ad un infortunio sul lavoro addebitato alla condotta colpevole dell’imputato e l’evento morte provocato da una broncopolmonite massiva bilaterale contratta dall’infortunato durante il ricovero in ospedale per la cura degli esiti dell’infortunio; ciò sul rilievo che, secondo quanto ricostruito in sede di merito, la broncopolmonite era risultata essere una complicanza non eccezionale delle gravi lesioni subite dall’infortunato, che ne avevano provocato l’allettamento prolungato con la conseguente disventilazione polmonare che, a sua volta, aveva provocato la patologia rivelatasi letale; più recentemente, Sez. 4, n. 10656 del 13/2/2024, Parodi, Rv. 286013 -01, proprio in fattispecie relativa a responsabilità per omicidio colposo per violazione di norme antinfortunistiche, in cui la Corte ha escluso rilevanza deterministica esclusiva alle sopravvenute complicanze nosocomiali, causa ultima del decesso del lavoratore, per il lungo periodo di immobilizzazione patito in conseguenza di gravi fratture vertebrali; n. 53541 del 26/10/2017, Zantonello, Rv. 271846 – 01; n. 25560 del 2/5/2017, Schiavone, Rv. 269976 – 01, in materia di sinistri stradali, in cui la Corte ha escluso l’interruzione del nesso di causalità in relazione al decesso della vittima per insufficienza cardiocircolatoria con coma da shock emorragico in soggetto politraumatizzato da lesioni stradali, intervenuto a circa un mese di distanza dal sinistro, rilevando che i potenziali errori di cura costituiscono, rispetto al soggetto leso, un fatto tipico e prevedibile, mentre, ai fini della esclusione del nesso di causalità, occorre un errore del tutto eccezionale, abnorme, da solo determinante l’evento letale; Sez. 5, n. 18396 del 4/4/2022, Di Bernardo, Rv. 283216 – 02, in cui lo stesso principio è stato affermato anche con riferimento alle lesioni volontarie seguite dal decesso della vittima, avendo la Corte escluso che l’eventuale negligenza o imperizia dei medici, ancorché di elevata gravità, elida ex se il nesso causale tra la condotta lesiva e l’evento morte, in quanto l’intervento dei sanitari costituisce, rispetto al soggetto leso, un fatto tipico e prevedibile, anche nei potenziali errori di cura, mentre ai fini dell’esclusione del nesso di causalità occorre un errore del tutto eccezionale, abnorme, da solo determinante l’evento letale).

Una volta precisato quanto sopra, gli assunti difensivi risultano errati nella premessa, atteso che le supposte manovre scorrette, il posizionamento su una sedia, la caduta dalla lettiga non costituirebbero quell’evento eccezionale capace di innescare un autonomo percorso causale rispetto a quello determinato dalla caduta avvenuta nel precario contesto lavorativo descritto nelle sentenze di merito.

Solo per completezza, dunque, può condursi la verifica circa la sussistenza di eventuali vizi nel percorso giustificativo dei giudici del merito che hanno ritenuto non provati proprio quegli errori e smentite le circostanze solo ipoteticamente prospettate (come quella della caduta dalla lettiga all’interno dell’ambulanza) e tale verifica non può avere in questa sede l’esito propugnato nel motivo di ricorso, atteso che, sotto tale specifico profilo, non viene formulata una censura in diritto, ma contestata la lettura delle prove, la difesa opponendo una propria versione dei fatti, di fatto sollecitando questa Corte di legittimità a farla propria, ciò che le è interdetto per i principi sopra richiamati.

  1. Da quanto esposto al paragrafo che precede, deriva la manifesta infondatezza del primo motivo. Intanto, muovendo dal diritto vivente, deve ribadirsi che la rinnovazione dell’istruttoria nel giudizio di appello, attesa la presunzione di completezza di quella espletata in primo grado, è un istituto di carattere eccezionale al quale può farsi ricorso esclusivamente allorché il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266820 – 01) e deve pure considerarsi, quanto alla decisività della prova che la difesa ha agitato lungo il corso dell’intero procedimento, che essa è stata sostanzialmente prospettata nei termini propri di una corretta dialettica processuale, nella quale le prove di segno contrario (nella specie, peraltro, rappresentate anche da due diverse ricostruzioni da parte dei tecnici, essendo stato garantito un regolare contraddittorio alle parti) sono state poste al vaglio dei giudici del doppio grado di merito, i quali hanno fornito adeguata giustificazione circa le soluzioni tecniche prescelte, dando conto delle tesi contrapposte e attingendo a elementi fattuali anche per sottoporre a verifica la correttezza di quelle ritenute più attendibili. E, sul punto, va ricordato, ancora una volta con richiamo ai principi consolidati in materia, che non è censurabile in sede di legittimità la decisione del giudice di merito che, facendo proprie le conclusioni scientifiche del perito, fornisca congrua ragione della scelta e dimostri di essersi soffermato sulla diversa tesi che ha disatteso, senza che costituisca vizio di motivazione l’omesso esame critico di ogni deduzione difensiva (sez. 2, n. 49742 del 10/10/2023, B., Rv. 285866 – 01), trattandosi, in ogni caso, di un giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità, purché la sentenza dia conto, con motivazione accurata e approfondita, delle ragioni di tale scelta, del contenuto dell’opinione disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti (sez. 5, n. 43845 del 14/10/2022, Figliano, Rv. 283807 – 01).

Peraltro, la deduzione non tiene in debito conto che è facoltà garantita della parte quella di presenziare, mediante consulente di fiducia, a tutte le fasi di formazione della prova scientifica, il che salvaguarda anche la possibilità di porre a confronto e a stretta critica le conclusioni del perito (Sez. 1, n. 39832 del 17/3/2023, Piccoli, Rv. 285328 – 01; Sez. 2, n. 19134 del 17/3/2022, Di Noia, Rv. 283197 – 01). Sotto altro profilo, poi, il deducente omette di considerare che il giudice, se ha indicato esaurientemente le ragioni del proprio convincimento, non è tenuto a rispondere in motivazione a tutti i rilievi del consulente tecnico della difesa, in quanto la consulenza tecnica costituisce solo un contributo tecnico a sostegno della parte e non un mezzo di prova che il giudice deve necessariamente prendere in esame in modo autonomo (Sez. 2, n. 15248 del 24/1/2020, Grimani, Rv. 279062 – 01; Sez. 5, n. 42821 del 19/6/2014, Ganci, Rv. 262111 – 01).

  1. Infine, è manifestamente infondato, oltre che aspecifico, il quarto motivo.

Il primo giudice aveva valorizzato, ai fini di giustificare il diniego delle generiche, sia l’assenza di elementi positivi, che la condotta processuale giudicata ostruzionistica e ostativa rispetto ad una celere definizione del processo; ma anche quella dissipativa del patrimonio a detrimento delle aspettative delle parti civili, che aveva giustificato un decreto di sequestro conservativo. Trattasi di elementi che quel giudice aveva peraltro considerato indicativi di un mancato ravvedimento e della non comprensione del disvalore della condotta tenuta, ai quali ha pure aggiunto la introduzione nel processo di dati ritenuti palesemente falsi (indicandone uno specifico, relativo alla mano ritratta in sede di autopsia che il A.A. aveva sostenuto esser la sua).

Nel rispondere al relativo motivo di gravame, la Corte territoriale ha fatto proprie dette ragioni e, in ricorso, la difesa non ha indicato alcun elemento pretermesso in tale valutazione, idoneo a incrinarne la congruità e logicità, essendosi limitata a stigmatizzare una presunta contraddittorietà per il fatto che i giudici d’appello, da un lato, hanno riconosciuto il diritto dell’imputato a difendersi, dall’altro, ne hanno censurato le relative esternazioni, senza nulla aggiungere in ordine ai numerosi elementi elencati a sostegno del giudizio di non meritevolezza, dal che deriva, per l’appunto, la aspecificità della doglianza articolata con tale motivo.

Ancora una volta, vanno richiamati i principi che la giurisprudenza ha da tempo fissato in merito all’onere motivazionale del giudice ai fini del diniego della concessione delle attenuanti generiche: non è, infatti, necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente il riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, purché la valutazione di tale rilevanza tenga conto, a pena di illegittimità della motivazione, delle specifiche considerazioni mosse sul punto dall’interessato (Sez. 3, n. 2233 del 17/6/2021, Bianchi, Rv. 282693 – 01).

  1. Al rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, ma non anche quella alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili J.J., K.K. e L.L., non avendo la memoria depositata nel loro interesse, a causa della genericità, fornito alcun contributo alla dialettica processuale (sul punto, Sez. U, n. 34559 del 26/6/2002, De Benedictis, Rv. 222264 – 01 e, da ultimo, Sez. U, n. 877 del 14/7/2022, dep. 2023, Sacchettino, in motivazione).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Nulla sulle spese alle parti civili.

Cosi deciso in Roma, il 29 ottobre 2024.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2024.

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